Siracusa. Lo strapotere straniero e il pregiudizio popolare tinsero di sangue Siracusa

di Redazione

Pagine impressionanti di efferatezze nella fucilazione a Piazza Duomo di due innocenti: Mario e Carmelo Adorno. Chi se ne ricorda più? Una follia collettiva scatenò la caccia all’untore nel 1837

Un’antica avversione ha sempre sottratto all’attenzione dell’opinione pubblica siracusana un testo pur denso di tristi verità, ma sepolto nella polvere dell’oblio: il libro dell’eminente cittadino Emilio Bufardeci, Le funeste conseguenze di un pregiudizio popolare. Una documentata rievocazione dei fatti luttuosi del 1837, delle loro origini, della loro natura.

Pagine impressionanti, rievocative di terribili efferatezze accadute in una città — Siracusa — dalle nobili tradizioni di tolleranza e di civiltà. Un raptus di follia collettiva esploso in conseguenza della falsa credenza della diffusione del veleno ad opera del governo borbonico e dei suoi vassalli (trattavasi di epidemia colerica che in quel tempo infestava quasi tutte le regioni dell’Europa occidentale). Credenza assecondata da oscure sollecitazioni di quanti sfruttavano la irragionevole furia popolare per fini politici di lotta contro il regime borbonico. Però la vicenda siracusana non fu un fatto isolato, anche altrove ebbero a verificarsi fenomeni analoghi.

Fu e rimane difficile una ricerca equilibrata ed imparziale della verità. Scrive il Bufardeci:

Quasi al tramonto della nostra vita, noi non abbiamo illusioni di sorta; molti amari disinganni colpirono la nostra mente ed il nostro cuore; ma prima di scendere nel sepolcro, abbiamo il coraggio civile di rivelare talune verità che la menzogna ed il tempo coprirono di un denso velo; e lo facciamo con animo tranquillo e sereno, nella coscienza di rendere un servizio all’umanità, e precisamente al nostro paese che, in gran parte, contribuì ad accreditare un vecchio errore, il quale se fosse stato seppellito nell’oblio, come furono seppelliti gli orpelli e le male arti che l’ingenerarono, noi certo oggi evocheremmo dall’inferno i dannati di Dante.

E continua:

Perché si dimostri l’origine del grave inganno in cui cadde la povera gente, descrive il panorama politico siracusano del tempo ed afferma con coraggio che la diffusa credenza del colera non doveva essere utilizzata dai riformatori i quali, se da un canto credevano di potersi a buon diritto servire di quel mezzo per rovesciare l’abborrita monarchia, dall’altro non prevedevano gli effetti funesti di un principio immorale, innestato nella coscienza del popolo. La lealtà prima di tutto, noi diciamo sempre agli stessi onesti liberali; con le idee sovversive e perniciose non si rende alcun servizio all’umanità. I popoli non si sottraggono dalla schiavitù, né si moralizzano con la menzogna e con l’inganno; bisogna istruirli, istillando nei loro cuori le vere massime della virtù, della verità, del diritto; in modo che si possa tradurre la condizione dell’individuo in una vita propria e collettiva, materiale ed intellettuale. Spargere il malcontento, coniare turpi menzogne e contro i cittadini e contro il Governo, sfrenare la plebe, compromettere l’ordine pubblico, senza un programma possibile e senza un utile risultato, non e opera di onesti liberali, ma di nemici della patria.

La Corte marziale fu elevata a rito subitaneo, senza le forme volute dalla stessa legge militare e dalla civiltà. Si arrestavano gli individui, più per immolare vittime, che per punire delitti. La istruzione di un processo non durava che un giorno appena, e lo intervallo tra la sentenza e la esecuzione era segnato da poche ore. Mario Adorno e il di costui figlio Carmelo, padre anche egli di numerosa famiglia, furono giudicati subitaneamente. Gli infelici non ebbero difesa. Non vi era avvocato che si prestasse in quei difficili momenti, e si ignoravano d’altronde il giorno e l’ora del dibattimento. Pure lo Adorno ebbe la forza di difendere se stesso, con coraggio e con energia. Parlò quasi un’ora e mezzo. Compendiò la storia de’ fatti, dichiarò francamente la sua credenza del veneficio. Accennò i servizi resi alla patria, allo Stato, all’umanità per la scoperta dell’infernale setta, e per le misure d’ordine che egli avea adottato durante i giorni procellosi. Protestò di non essere stato mosso dall’interesse politico e di non avere giammai congiurato contro il governo del re. Finalmente implorò la giustizia. Con Mario e Carmelo Adorno fu condannato un certo Concetto Lanza alla pena di morte. Fu scelto per luogo del patibolo la Piazza del Duomo e — colmo di efferatezza —fu disposto che Mario Adorno fosse spettatore della morte del figlio.

Terribile la descrizione dell’esecuzione:

La Piazza Duomo pareva un camposanto, il silenzio era interrotto dal cupo suono dei tamburi e dal rumore delle ruote de cannoni, che precedevano un battaglione di fanteria. I quattro sbocchi delle vie erano formidabilmente guardati da soldati svizzeri, i battistrada di tutti i movimenti militari della caduta dinastia contro i propri sudditi! Taluni, dai palagi vicini, osservavano spaventati la lugubre scena. Cessava il militare calpestio, e sentivasi a chiare note leggersi la tremenda sentenza di morte. L’aspetto di Mario Adorno, quantunque stancato dalla insonnia, dal dolore e dal disinganno, presentava la serena dignità di un uomo immeritevole di quel supplizio. Alle strazianti parole del figlio rivoltegli a mezza voce: «Padre! Da chi la sventurata famiglia trarrà aiuto e consiglio?», rispondeva con imperturbabile eroismo: «Dalla vita che qui lasciamo, senza delitto e senza rimorso!».

Corrado Piccione

14 Novembre 2018 | 09:38
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