Sappiamo, o crediamo di sapere, tutto sulla “diversità”. Che entra prevalentemente in campo quando si fa riferimento al fenomeno sessuale.
È vero: la diversità esiste dal primordiale, stabilita istituzionalmente da Madre Natura per la origine e per la prosecuzione della specie umana, generando due esseri con compiti specifici e, appunto, diversi ancorché assolutamente complementari e insostituibili ai finì della inalienabile procreazione.
Diversità fisica e non soltanto. C’è una illustre letteratura al riguardo.
Il maschio deve occuparsi di precise incombenze, la femmina di altre.
Lui si muove, pensa, agisce in un determinato contesto, lei in un altro. Ognuno, si sa, con atteggiamenti e spesso con risultati diversi. Mentre lui ci prova ad addentrarsi (honny soit qui mal y pense) nella territorialità di lei, per esempio con la culinaria, lei invade il dominio dell’altro e spesso con risultati migliori: la politica, la medicina, il lavoro manuale, quello di ufficio, il militare, le professioni, e così via.
Ciò che proprio per la congenita diversità potrebbe sembrare una invadenza (femminismo docet) approda sovente a risultanze meritevoli di attenzione.
Stando alle cronache, però, c’è un limite: non esiste, che si sappia, infatti un Giuseppe Verdi femmina. L’esegesi del fenomeno ci porterebbe lontano, e d’altronde l’argomento in questione è un altro: le curiosità spesso ignorate, sulla umana consistenza del “Genio”.
Lo psichiatra Philippe Brenot si è occupato di analizzare le “stranezze” di alcuni “Grandi” famosi nei vari campi dell’arte, del pensiero, del linguaggio, della letteratura, della musica e così via.
Scegliendo fior da fiore tra le rivelazioni di Brenot, scopriamo che Kafka soffriva di un ossessivo terrore delle malattie, tanto che sin adolescente evitava determinati alimenti, si sottoponeva a condizionamenti corporeali che aborrivano la sessualità e sfuggivano l’intimità fisiologica, praticando bagni di acqua gelata, con la paura di diventare calvo, deforme, scheletrico, gobbo, cosa che verosimilmente lo portò a scrivere le “Metamorfosi”.
Di peggio faceva il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer. Il quale fu vittima di macroscopiche manie di grandezza, tanto da paragonarsi nientemeno che a Gesù, e presumendo di essere il solo capace di guidare lo spirito umano verso la verità.
Che sia stato lui a mettere la pulce nell’orecchio a quel pazzoide di Hitler?
Ma finì anche in un violentissimo senso di persecuzione spianando le armi al minimo rumore. Divorato dall’angoscia, scriveva i propri testi in greco, in sanscrito, in latino, per evitare che qualcuno se ne potesse appropriare,
Famosa una sua battuta: “Quando non ho alcuna inquietudine, è quello il momento in cui ho i più grandi timori”.
E per la par condicio, vogliamo dare una occhiata sul versante femminile?
Per esempio sulle allucinazioni della grande Virginia Woolf?
Costituzionali i suoi eccessi maniacali, alternati a profonde crisi di depressione. “Quando era preda della crisi – ha scritto suo marito Leonard – diventava molto eccitata, logorroica, il suo pensiero galoppava, parlava con volubilità ed in modo incoerente. Aveva delle allucinazioni e sentiva delle voci, persino diceva che in giardino alcuni uccellini parlavano in greco. Quando invece cadeva in depressione, rifiutava il cibo, sprofondava in una malinconia che la obnubilava, diventava preda della disperazione, si accusava di avere insensate colpevolezze”.
È noto che Virginia Woolf tentò il suicidio nel 1895, nel 1913, finché nel 1941 riuscì nell’intento annegandosi in un fiume.
L’autore della “Recherche”, Marcel Proust, dal canto suo era vittima di fobie nevrotiche e di rituali paranoici e ossessivi.
Tanto per cominciare, si nutriva soltanto di caffellatte addolcito da un cucchiaio di confettura di prugne. Viveva estraniato dal mondo, tanto che finì con l’abbandonare la vita parigina ritirandosi in una successiva serie di camere d’affitto che prediligeva come
immaginario rifugio.
Passò dei mesi interi segregato nella sua solitudine, arrivando a tappezzare di sughero le pareti delle stanze in cui viveva di volta in volta, e senza muoversi dal letto.
Morì nel 1922 come un miserabile squattrinato. Philippe Brenot titola il suo libro di rievocazioni “Piccole stranezze e grandi ossessioni delle più eccelse menti della Storia”,
Evidentemente la casistica delle stranezze del Genio continua. Non solo nel libro di Brenot, ma anche nella vita di ogni giorno, di cui fa parte integrante anche il “Genio”.
Colui, cioè, o colei che ci sfiorano camminando per via, magari ci parlano del fatuo ma hanno la testa da un’altra parte, che ci sorprendono loro malgrado essendoci oggi e scomparendo in altri lidi domani.
Un lampo di genialità è infine, per chiudere con un sorriso, ascrivibile ad un personaggio catanese noto come Brigantoni, che parodiando la famosa canzone “Pensami”, così cantava alla sua donna per convincerla a farsi rifare le fattezze come si usa oggi: “Pensici, c’è un dutturi giappunisi ca n’o giru di tri misi ti fa comu Sharon Ston. Pensici, c’addiventi na pupidda come a pasta d’a maidda e chiù bedda pari tu. Pensici, bacia tutta la mia pelle, ma non sotto le ascelle perché potresti morir”.
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