«Questa mattina a Siracusa abbiamo letto dei brani al mercato di via Giarre, raccontando la storia di alcune donne ammazzate. È stato un momento molto toccante. Abbiamo poi proseguito in fila tra le bancarelle… ricordando i loro nomi, la loro età e come sono stati uccise.
«Il tutto in un toccante silenzio.
«Eravamo vestite tutte in nero, con un fiore rosso. Non avevamo grandi pretese, solo ricordarle. Durante questa piccola manifestazione abbiamo distribuito un volantino dell’Asp e un elenco di numeri che le donne possono contattare.
«La presenza dei genitori di Eligia Ardita è stata da una parte straziante ma dall’altra ci ha dato coraggio nelle letture. Nessuna di noi ha un esperienza da lettrice, ma abbiamo voluto, come si dice «metterci la faccia» e aggiungo anche il cuore.
«Rappresentiamo tutte le donne uccise. Rappresentiamo tutte le donne prese a calci e pugni, quelle che si presentano in pronto soccorso con la faccia pesta e «guardi proprio non so come ho fatto a scivolare così dalle scale…».
E che nessuno parli d’amore. Perché non è di amore che si tratta.
Che si finisca, una volta per tutte, di definire «passionali» delitti commessi quando della passione non è rimasta nemmeno un traccia lontana.
Le parole sono fondamentali, sempre. Perché per capire, partecipare, vincere, si parte dalle parole. E dalle storie che le parole raccontano, dalla nostra passione – quella sì – nello scrivere ogni volta una storia che non è ne ha di eguali, anche se spesso sembrano l’una fotocopia dell’altra.
Il termine «femminicidio» è riuscito a passare le barricate di chi non l’aveva mai amato. Femminicidio: cioè omicidio di una donna in quanto tale, parola-manifesto per dare il nome giusto alle troppe storie di amanti, mariti, fidanzati, spasimanti che hanno trovato più coraggio per uccidere che per accettare un «no» o un addio.
Partiamo dalle parole, dicevamo. E poi diamo voce, più voce possibile, a chi può raccontare perché c’era, perché sa, perché ha visto o ha fatto qualcosa in quella storia o per quella storia. Magistrati, gente che spende tutto il suo tempo e la sua energia nei centri antiviolenza, psicologi, carabinieri, poliziotti, avvocati… attori principali di un film che noi ascoltiamo guardiamo con umiltà, senza protagonismi né cattedre dalle quali dare lezioni.
Ce l’ha insegnato l’inchiesta che ha portato al libro Questo non è amore (Marsilio). Capire significa partecipare e quindi diventare tutte protagoniste. Un processo mentale che però non possiamo fare soltanto noi donne. Serve la «complicità» degli uomini, il loro aiuto, la loro comprensione, magari partendo proprio da chi fra loro ha passato il limite ed è riuscito a capirlo in tempo per tornare indietro. «Non sta succedendo a me» è l’errore più grande (di uomini e donne), è l’indifferenza, la sottovalutazione, l’idea (sbagliata) che tutto questo non riguardi noi, le nostre famiglie, i nostri vicini, i nostri amici.
E invece no. Sta succedendo agli altri e sta succedendo anche a noi. Ora.
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