Tra l’1 e il 2 aprile di settant’anni fa, al confine con la Bulgaria, mentre tentava di raggiungere l’Europa, in circostanze ancora misteriose fu ucciso (il suo corpo fu trovato solo il giugno successivo) lo scrittore turco Sabahattin Ali (1907). Comunista convinto, è probabile che sia stato eliminato dai servizi segreti del suo paese, verso cui, già ai tempi di Atatürk, Ali aveva assunto atteggiamenti critici, che gli costarono la prigione.
Il nome di Sabahattin Ali, del tutto sconosciuto ai più, è tornato prepotentemente alla ribalta per il rapido successo tributato dai turchi, soprattutto giovani, ma non solo, al romanzo «La Madonna col cappotto di pelliccia», pubblicato nel 1943 e riedito nel 2013. Fu negli ultimi giorni di maggio di quell’anno, durante le proteste «contro la nascita di un nuovo centro commerciale al posto di Gezi Park in Piazza Taksim a Istanbul… che ho scoperto – scrive Feride Çiçekoğlu nella Prefazione all’edizione italiana pubblicata nel 2015 da Scritturapura, piccola e meritevole casa editrice di Asti – che le copie di “La Madonna col cappotto di pelliccia” erano tra le più popolari tra quelle della biblioteca di Gezi Park. L’età media degli occupanti era inferiore ai trent’anni.
La nuova generazione era alla ricerca di un amore romantico e di una causa comune.
Così hanno riscoperto Sabahattin Ali, come eroe tragico e come scrittore di una toccante storia d’amore».
Ma al romanzo di Ali di recente una nuova popolarità si è aggiunta, perché – come ha scritto lo scorso 15 febbraio Marco Ansaldo su «Repubblica» – «nei giorni scorsi, in occasione della visita del presidente turco Recep Tayyip Erdogan in Italia, la casa editrice romana Fazi aveva annunciato l’uscita propria del romanzo». Scritturapura ha però reagito e, tramite i suoi legali, ha fatto sapere che i diritti esclusivi per l’Italia sono di Scritturapura e che Fazi non può pubblicarlo fino al 2019.
L’io narrante, un giovane di Ankara, licenziato senza alcun motivo dalla banca in cui lavorava (ma la sua vera passione è scrivere poesie e racconti), cerca, ma invano, un nuovo posto di lavoro. L’incontro fortuito con un vecchio compagno di scuola, Hamdi, vicedirettore di un’azienda che tratta legnami, lo salva dalla disperazione, ma soprattutto lo mette in contatto, faccia a faccia nello stesso ufficio, con la persona che rivoluzionerà la sua vita, il traduttore dal tedesco Raif Efendi.
La prima parte del romanzo segue le vicende della vita mediocre di Efendi dentro una famiglia allargata (la sua e quella dei cognati), in cui è da quasi tutti mal sopportato.
Efendi è un uomo chiuso, di poche parole. Si direbbe un misantropo, ma non lo è. Le ragioni della triste solitudine di Efendi il lettore le capirà leggendo la seconda parte del libro, che poi è – nella finzione – la lettura del contenuto del quaderno dalla copertina nera che l’amico ha trovato nel cassetto della scrivania di Efendi e che gli consegna, assieme alle poche altre cose che Efendi, consapevole che stava per morire, gli aveva chiesto di portargli. Nemmeno in punto di morte Efendi si scioglierebbe, se non fosse addolcito dalle parole dell’amico («Non potreste lasciarmi questo quaderno per una notte, solo per questa notte? Siamo stati amici per tutto questo tempo, ma non mi avete mai detto niente di voi… Non trovate naturale la mia curiosità? […] Siete per me la persona più preziosa al mondo…»), che riescono a dissuaderlo dal proposito di gettare il quaderno nella stufa.
Efendi, qualche tempo dopo la fine della prima Guerra mondiale, dal padre, che ha una piccolo saponificio a Havran, viene mandato in Germania per imparare “la produzione del sapone e in particolare quella dei saponi profumati”. Efendi si reca a Berlino, comincia a imparare la lingua, ma soprattutto a conoscere la città, visitandola in lungo e in largo. Compresi i musei. Ed è la visita, dopo quasi un anno di vita berlinese, a una mostra di pittori emergenti che sconvolgerà per sempre la vita di Efendi: «Ricordo solo – scrive Ali-Efendi – che me ne rimasi lì come pietrificato davanti al ritratto di una donna con un cappotto di pelliccia».
Sfoglia il catalogo e, «verso la fine, in fondo a una pagina, accanto al numero del dipinto, lessi queste tre parole: Maria Puder, “Selbsporträt”». Folgorato da quel quadro, Efendi si reca a osservarlo ogni giorno, suscitando la curiosità dei custodi e dei pittori presenti. Tra essi anche una giovane donna, che si rivelerà poi essere Maria Puder, l’autrice dell’“Autoritratto”, ebrea di origine praghese, che di notte faceva la cantante di cabaret.
Tra i due si stabilirà un rapporto di amicizia e poi di amore difficile e, infine, tragico. Che certo conta nel “plot” del romanzo, ma che da solo non basta a fare di un libro un capolavoro. Per un capolavoro occorre un altro ingrediente fondamentale: il modo di raccontare. E Sabahattin Ali di quell’ingrediente era ampiamente provvisto, e lo riversò in parole e frasi di rara efficacia espressiva, a rendere nella pagina lo scandaglio della complicata psicologia dei due personaggi (la timidezza di lui, la disincantata, ma sempre tormentata, lucidità di lei) e della loro lacrimevole vicenda sentimentale. È stata quella prosa che ha avvinto i lettori turchi e che certo – anche grazie all’encomiabile traduzione dal turco di Rosita D’Amora – avvincerà i lettori italiani.
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