Sono ricordi incancellabili di tempi ormai lontani che consentivano incontri, discussioni, confessioni su temi di cultura e di politica dibattuti in una sincera tensione di ricerca critica della verità.
Era l’inverno del 1982. Un gruppo di cittadini decidemmo di ricordare pubblicamente un siracusano di grande valore intellettuale: Sebastiano Aglianò. Per concordare le modalità organizzative, ebbi lunghi colloqui con Renato Randazzo, uno dei promotori.
Parlammo di un libro di Aglianò, la cui tesi era discussa e da molti non condivisa: Cos’è questa Sicilia.
Raccolsi, nelle parole di Randazzo, notazioni acutissime che segnavano le analisi di uno spirito inquieto destinato a vivere in un ambiente umano senza qualità, caratterizzato da tipi agevolmente inverabili nella realtà cittadina. Notavo l’intima protesta contro una situazione crepuscolare, la rivolta contro il diffuso gregarismo, le illusioni di un serio impegno politico.
La discussione volgeva su tempi culturali di carattere generale.
Renato Randazzo aveva una visione della vita laica e storicista; eppure credo che avvertisse quel senso di mistero che avvolge tutte le vicende umane, che sentisse che la vita di ogni persona, pur banale e mediocre che possa apparire, è dominata da innumerevoli situazioni che rimangono incomprese, forse incomprensibili, che sentisse la tirannia sottile e sfuggente dell›ambiente che depotenzia ogni tensione ideale e l’esigenza di trascenderlo in un empito di infinito.
I miei ricordi si rivolgono alle pagine dell’indimenticato romanzo La città verticale, al graffiante giudizio: «11 sentimento che qualifica il siracusano è l’invidia». Però non credo che si debba ritenere che Randazzo intendesse adagiarsi su un volgare luogo comune, ma che piuttosto intendesse individuare stati individuali e collettivi di frustrazioni d’ambiente che incidono negativamente sul rapporto intersoggettivo e lo dissolvono nel nulla.
II problema sotteso a quelle pagine è di notevole interesse psicologico e storico: il problema di saper guardare in quello che può dirsi il sottosuolo misterioso dell›anima siracusana.
Randazzo avvertiva acutamente che la storia intima di ogni siracusano è il ripetersi del tentativo di un continuo fuggire, però quasi sempre in forma fantasiosa e virtuale, un fuggire dalla propria solitudine, non sempre comprendendosi che la solitudine è la sua condizione esistenziale, la sua condanna, il compiersi del suo destino. Una maschera nuda, pirandellianamente infelice, in attesa del nulla, nel quale scompare senza lasciare tracce. Ma ciò che rende acuta la sofferta intelligenza di questa realtà è il suo divincolarsi da condizioni storiche.
Randazzo non ha “un mondo di ieri” da offrire alle repulsioni dei tempi attuali; Stefano Sweig non fu il suo precursore.
Randazzo rivela una realtà di sempre, ma in fondo rivela soprattutto se stesso. Scrivere è rivelare, non descrivere.
Chi scrive parla anzitutto di se stesso e a se stesso: spiega il senso del suo tempo e del suo destino. E’ quindi da domandarsi: «La realtà rivelata ha limiti oggettivamente surrettizi? L›umorismo ed il sarcasmo hanno risvolti allusivamente collegati con il mondo di Randazzo? Nella sproporzione tra l’immagine e la realtà non si innesta la percezione di un paradosso esistenziale che si riflette antinomicamente nell’individuare un rapporto con l’ambiente?
La verità è quella intuita da Randazzo. Nella gerla della propria esistenza ogni siracusano porta il dolente e paradossale bagaglio di tutte le sue illusioni nel rapporto con l›ambiente che spesso appare un rapporto inerte.
Il siracusano è un inerte? Quanto su questo luogo comune si addensa di incultura e di superficialità? Leggendo in filigrana le pagine di Randazzo, ricordavo quello studio notissimo di Claudio Magris che, sul piano della cultura europea, descriveva il contrasto tra Schlegel e Goethe, che ha esaltato l’inerzia dello spirito che prevale sull’anelito prometeico del Faust.
L’inerzia non è il torpore dello spirito; è tipico dei popoli di alta civiltà, è la disillusa accettazione di un mondo disincantato, della vita rivelatasi disarmonica ed assurda che diventa deserto.
Ma ancora si insinua il dubbio del surrettizio. Non può forse trattarsi, per ciascuno di noi, di una falsa e prospettiva ottica in senso figurato?
Così il rapporto odio-rancore-invidia può diventare un grande rapporto d’amore.
Notavo il discorrere lento e meditativo di Randazzo, che rivelava un’anima solcata da una profonda venatura di pessimismo che in lui, insigne umanista, derivava dalla conoscenza del mondo della grecità nel quale il male appare la tragica realtà della vita.
Parlammo altre volte. Le mie impressioni si consolidarono. Il suo pessimismo non crollava mai nella disperazione. Chi studia riesce ad analizzare e comprendere le vicende umane; è capace di salvare la propria intelligenza dalle suggestioni contingenti e volgari, sa opporre alle miserie di ogni giorno il muro ironico della propria indifferenza, non è un vinto, perché rimane avvolto in un alone di sogno che rende la vita degna di essere vissuta. Per questo motivo Renato Randazzo non fu un vinto.
Così ricordo Renato Randazzo.
Corrado Piccione
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