Il 1860 era l’epoca nella quale l’Inghilterra coltivava il suo preminente interesse di rafforzare in tutti i modi il suo dominio nel Mediterraneo, favorendo ogni iniziativa intesa a demolire la dinastia borbonica. In questa prospettiva favorì, e in un certo senso assecondò, la spedizione dei Mille che sbarcarono indisturbati in Sicilia, sotto la protezione della flotta inglese.
È un dato di verità.
Fu una grave e triste esperienza di guerra civile che, per la prima volta, insanguinò la terra di Sicilia. Giovani bresciani, bergamaschi, liguri combatterono contro giovani pugliesi, calabresi, napoletani che costituivano l’esercito borbonico. G. Cesare Abba, testimone oculare tra le file garibaldine, scrisse nelle sue celebri Note: “Fu una guerra tra Italiani, la prima ma non l’ultima della storia moderna d’Italia. In Sicilia e al Volturno fu sparso sangue italiano”.
Ma è il dato politico da sottolineare che introduce alla comprensione dei fatti successivi. Ed è questo: indipendentemente dall’esito dell’avventura garibaldina, i Siciliani migliori non accettarono mai di essere aggregati ad un nuovo regime politico sotto il tallone di una conquista militare.
Però (è da sottolineare) in questa posizione non inerivano fomiti di indipendentismo disgregante, ma, al contrario, essa era animata da una consapevole riaffermazione di italianità in questa terra di Sicilia, ove apparve il primo nucleo di nazionalità italiana con la monarchia normanna ed ove si formò l’unità della lingua e della letteratura comune a tutta l’Italia. Non si intende l’essenza storica della Sicilia se non si considerano congiuntamente le sue perenni aspirazioni alla propria libertà e alla propria autonomia e un forte sentimento di italianità.
Per questi motivi la Sicilia non sentì mai di essere parte integrante dell’unità del Regno delle Due Sicilie. Fu il Trattato di Vienna del 1815 che impose l’unione della Sicilia al Regno di Napoli, ma questa unione non fu mai accettata dai siciliani come un atto liberamente e consapevolmente voluto.
La Sicilia per sette secoli — malgrado l’infinito avvicendarsi di avvenimenti e di mutamenti — mantenne sostanzialmente integro il suo carattere di Stato costituzionale indipendente. Ne è prova il fatto che in Sicilia le grandi decisioni storicamente rilevanti furono sempre pronunziate dal suo Parlamento, secondo la configurazione strutturale consentita dalle condizioni dei tempi, come può evincersi da una rapida scorsa storica.
In Sicilia non si è mai considerato voto legale della Nazione che quello pronunziato per organo del Parlamento. Né gli annali di Sicilia additano un solo esempio di alterazione legalmente fatta nel sistema politico senza l’intervento del Parlamento.
Fu nel Parlamento del 1221 che l’imperatore Federico pubblicò le prime leggi del suo Regno. Nel Parlamento del 1223 furono adottate le Costituzioni dei principi normanni, compilate dallo stesso imperatore. Nel Parlamento del 1240 fu riconosciuta la rappresentanza dei Comuni siciliani. Nel Parlamento del 1282 la Nazione riconobbe i diritti di Pietro di Aragona alla corona di Sicilia. Nel Parlamento del 1286 furono stabiliti i Capitoli del re Giacomo. Nel Parlamento del 1296 si fissò la famosa Costituzione, capo d’opera della saggezza dei Siciliani di quei tempi. Il codice di procedura che, quanto era disadatto al secolo decimonono, tanto era stato saggio all’età in cui fu compilato dal re Alfonso, fu dal Parlamento di Sicilia riconosciuto e registrato nella cancelleria del Parlamento stesso. Nel Parlamento del 1596 fu stabilita, sotto Filippo II, la prammatica de reformatione tribunalium, che produsse un sensibile miglioramento nel sistema politico, levando le grandi cariche che tanta preponderanza davano ai baroni e mettendo l’amministrazione della giustizia nelle mani di un corpo separato di giurisperiti. Nel Parlamento del 1812 fu ricondotta la Costituzione di Sicilia ai suoi veri princìpi e data diversa forma al Parlamento stesso.
La Costituzione del 1812 — autentica gloria siciliana — fu in Europa la prima Costituzione liberale del secolo XIX, antecedente alla Costituzione di Luigi XVIII, che è comunemente ritenuta il primo esempio di costituzionalismo liberale. Fu l’opera mirabile del Parlamento siciliano che assunse, in quella circostanza, il carattere di assemblea costituente: la prima assemblea costituente della storia moderna d’Italia.
Fu per queste complesse ragioni che — quando dopo la caduta della dinastia borbonica si pose il problema dell’unità politica italiana – la Sicilia chiese attraverso gli uomini migliori, da Emerico Amari a Francesco Ferrara, da Michele Amari a Francesco Paolo Perez, compresi i siracusani Salvatore Chindemi ed Emilio Bufardeci, che l’unificazione fosse deliberata da un’assemblea rappresentativa del popolo siciliano, secondo una tradizione mai dissolta. Non si trattava soltanto di decidere automaticamente, ma si trattava di definire le condizioni e le modalità dell’unificazione con la salvaguardia dell’autonomia della Sicilia e del suo Parlamento. L’unificazione doveva e poteva diventare un grande avvenimento politico e costituzionale, non la ratifica di una occupazione militare mai accettata.
Questa istanza, in un primo momento, fu accolta.
Con decreto del 25 giugno 1860 fu disposta l’elezione dei deputati siciliani per la costituzione dell’assemblea che avrebbe dovuto statuire sulla unificazione. Con successivo decreto del 6 ottobre 1860 fu fissata la data del 21 ottobre 1860 per l’elezione dei deputati. Però si ebbe la sensazione che qualcosa si tramava contro la Sicilia. Il prodittatore era il piemontese Agostino De Pretis, certamente non amico dei Siciliani; non so se egli conoscesse la storia e le tradizioni politiche della Sicilia. Certo è che il 3 agosto 1860 egli, improvvisamente, estese d’autorità a tutta l’isola lo Statuto Albertino.
Insorsero, a nome della Sicilia, Gregorio Ugdulena e Filippo Cordova, affermando l’inalienabile diritto di ogni popolo di decidere spontaneamente da sé sul proprio destino politico.
Seguirono fatti gravissimi. Con decreto del 15 ottobre 1860 (sei giorni prima della data delle elezioni) fu annullata la convocazione degli elettori e fu imposto che i cittadini fossero chiamati ad esprimere un sì o un no senza condizioni e senza modalità attuative. Prevalse la logica della conquista e dell’annessione incondizionata che fu tipica della destra storica che allora governava il Paese e che in Sicilia agiva attraverso i luogotenenti piemontesi: da Martini a Montezemolo a De Pretis.
Fortissime furono le reazioni in tutta l’isola. Molti si astennero dal voto, non riconoscendo la legittimità dell›operato governativo e denunziando l’illegittimità sopraffattrice di un falso plebiscito condotto e guidato da agenti della politica piemontese.
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