Siracusa è famosa per essere stata con Teocrito la culla della poesia «bucolica». Meno nota però è un’altra circostanza, quella di essere stata la patria di quei poeti che per primi fecero dell’arte gastronomica argomento di poesia.
Siracusani furono: Miteco che con il suo Il cuoco siciliano insegnava alla Grecia l’arte di condire le vivande all’usanza di Sicilia; Terpsione che scrisse la Gastronomia e fu maestro di un altro famoso gastronomo Archestrato di Gela, autore di un poema dedicato ai piaceri della buona tavola. In questa schiera si annoverano altresì i due Eraclidi e Calmo.
Per merito di costoro, vissuti ai tempi di Dionigi (IV a.C.), presso greci e latini divennero rinomati i conviti, le mense, i condimenti siciliani.
Lo scrittore Ateneo nell’opera Deipnosofisti (Sofisti a banchetto) riporta alcuni frammenti del «siracusano o gelese» Archestrato e loda i «cuochi siciliani».
Platone nel III dialogo – De Republica – raccomanda ai giovani la temperanza: che si astengano dalle siracusane mense.
Cicerone nelle Tusculane ricorda «le imbandigioni siracusane».
Orazio infine nelle sue Odi afferma che ai malvagi:
… non Siculae dapes
Dulcem elaborabunt saporem
che nella versione di Tommaso Gargallo leggiamo:
… offrir solletico
Di cibi con industre arte conditi
Non posson i sican lauti conviti
Per l’epoca cristiano-bizantina si hanno solo un paio di testimonianze di persone che esercitavano mestieri attinenti all’alimentazione, perché allora il genere di lavoro del defunto assai raramente era ricordato nelle iscrizioni della Sicilia.
L’archeologo Paolo Orsi trovò nelle catacombe di Vigna Cassia l’epigrafe greca di una certa «Vittoria», Kondéitaria, proprietaria forse di una spezieria o bottega di aromi.
Gli aromatarii avevano spazi riservati nei mercati dove vendevano varie specie di aromi, usati come incensi rituali e, più largamente, come droghe che rendevano odorosi i vini e le vivande.
Di queste erbe aromatiche le più ricercate erano: la menta (mentha piperita), la cannella (cinnamomum), il finocchio (foeni-culum), la salvia (salvia officinalis), il timo (thymus) da non confondere con la santoreggia (satureia o thymbra) donde il verso del poeta veronese, contemporaneo di Virgilio, Emilio Macro (in De naturis herbarum): Si desti thimus, pro thimo ponere thimbram ovvero «Se manca il timo, mettere al suo posto la santoreggia».
Conditarii erano detti altresì coloro che gestivano taverne, dov’era possibile trovare cibi già cotti e conditi come si usa oggi nelle tavole calde.
Posteriore di qualche secolo è il ricordo latino di certo Fortunato «pistore» rinvenuto dal Soprintendente Luigi Bernabò Brea in un cimitero sopra terra dell’estremità meridionale delle catacombe di S. Giovanni, databile ai secoli VI-VII d.C.
Il collegio dei pistori aveva per insegna il moggio.
Pistore però è nome generico e indicava non solo il mugnaio ma anche il fornaio e perfino il pasticciere – pistor dulciarius – colui cioè che manipolava focacce, ciambelle e torte placentae.
A focacce condite col timo dei monti Iblei, accenna Marziale in un verso degli Epigrammi:
… misi
Hyblaeis medidas thimis placentas.
… mandai
focacce fragranti di timo ibleo.
Ottavio Garana
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