Nel saggio Degli indovinelli, che funge da introduzione al volume della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane dedicato a Indovinelli, dubbi, scioglilingua del popolo siciliano, Giuseppe Pitrè dà la seguente definizione dell’indovinello popolare: L’indovinello è un giro di parole, entro il quale viene compresa o supposta qualche cosa che non si dice, o una descrizione ingegnosa ed acuta della cosa medesima da qualità e caratteri generali che possono attribuirsi ad altre cose aventi o no con quella somiglianza o analogia. Codesta descrizione e sempre vaga, tanto vaga che colui al quale viene proposta a risolvere corre con la mente a questo od a quell’altro significato, incerto sulla soluzione da trovare (G. Pitrè, 1897, p. XVIII).
Questa definizione trova una pertinente integrazione in un precedente scritto di Serafino Amabile Guastella: Il carattere distintivo dell’indovinello plebeo, sia in Sicilia, che in ogni altro paese di Europa, e uno sforzo, quasi sempre ingegnoso, di rappresentare gli oggetti comuni con tale ambiguità di frase da convenire a cose o ad atti osceni: sicché la mente di chi ascolta venga tratta in errore, e corra non al vero, ma al significato apparente. E tali confronti spesso san colti con meravigliosa sagacia, ma per lo più manifestati sguaiatamente e non di rado col tecnicismo del vocabolo (S. A. Guastella, 1888, p. 9).
La diffusione e la conservazione dell’indovinello sono antiche quanto è antica la ricerca dell’uomo rivolta alla conquista e alla pratica della sapienza nei confronti della vita e degli eventi che essa riserva. L’antica civiltà greca, attraverso il mito di Edipo e lo scioglimento dell’enigma proposto dalla Sfinge, ha documentato che, in virtù della sapienza sottesa alla capacità di risolvere gli enigmi, gli uomini che ne fossero capaci potevano accedere alle più alte cariche civili, fino a governare le città, come appunto nel caso di Edipo a Tebe.
Anche le profetesse, le sibille e più comunemente i sacerdoti manifestavano la volontà degli dei attraverso degli enigmi. La Bibbia, nel libro dei Giudici, racconta di Sansone, che, durante la celebrazione delle sue nozze nella città di Timna, tratteneva i convitati, proponendo loro enigmi da sciogliere (Gdc, 14, 12-18). Ed è ancora la Bibbia a raccontare che il principe dei sapienti Salomone diede dimostrazione della sua sapienza, sciogliendo gli enigmi propostigli dalla regina di Saba e vincendo grandi ricchezze (Primo libro dei Re, 10, 1-9).
Presenti anche nell’Antologia palatina e poi con il Symphosium anche nella letteratura latina degli ultimi secoli, gli enigmi si trasferirono, via via nel tempo, sul terreno delle consuetudini più quotidiane e familiari, fino ad arrivare, come scrive Lucio Zinna (2003, p. 9) non meno praticato, nel Medio Evo, in cui fu definito, in un testo dell’epoca – riferisce il Pitrè — “cosa molto ridiculosa”.
Col passare dei secoli, e molto probabilmente per effetto dell’affermazione della cultura cristiana, gli enigmi persero il senso forte e la valenza seria, e a volte financo drammatica, che avevano nell’antichità, per assumerne uno debole con valenza ludica, a fini apparentemente di passatempo ma sostanzialmente con uno scopo oggettivamente culturale e finalità socio-antro-pologiche, pedagogiche e anche iniziatiche. Per tutti questi motivi gli enigmi, riconvertiti più semplicemente in indovinelli, si diffusero assai ampiamente tra le classi popolari e vennero, è proprio il caso di dire, sapientemente utilizzati in un preciso periodo dell’anno e rigorosamente soltanto in quello: il periodo del Carnevale, che, come si sa, in passato era piuttosto lungo, andando di fatto da gennaio alla Quaresima.
E noto, infatti, il detto popolare: Dopu ê ttrirre, olè olè olè, per dire: dopo l’Epifania, diamoci al divertimento consentito dal Carnevale. E gruppi mascherati, in effetti, era normale vedere in giro per le vie dei paesi siciliani a tutte le ore del giorno e fino a sera, almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso.
Il tempo circoscritto del Carnevale, in virtù della sua funzione catartica e liberatoria prima del tempo penitenziale della Quaresima, permetteva, e per certi aspetti tuttora permette, un preciso e marcato rovesciamento dei ruoli sociali, grazie al quale, nel caos fittizio appositamente predisposto, era possibile e consentito liberare ed esprimere energie solitamente represse fuori del tempo festivo, in quel tempo ordinario, cioè, che vede accumularsi in àmbito sociale e, implicitamente, anche in àmbito soggettivo e personale problemi, difficoltà, ansie, ubbìe, desideri inappagati, delusioni, che finiscono per concentrare, in ciascun individuo, energie represse, giacché normalmente queste sono sottoposte a quel rigido autocontrollo che, come ha narrato e rappresentato Pirandello, permette, nonostante tutto, la convivenza civile, tendente al mantenimento del cosmos sociale.
Il Carnevale da l’opportunità di liberare, e quindi indebolire e rendere innocue, tali energie represse, che potenzialmente hanno anche del negativo. Da via libera al caos, per pervenire, attraverso un processo catartico, al cosmos nuovo di cui c’è bisogno. Per questo a Carnevale tutto è consentito circa il sovvertimento dei ruoli sociali, tanto con l’uso delle maschere, per cui i ricchi si travestono da poveri e i poveri da ricchi, i belli da brutti e viceversa etc., quanto con l’esercizio libero della parola per mezzo della satira sociale, politica e di costume (S. Burgaretta, 2008, pp. 182 ss.).
Quanto alle maschere, merita ricordare la dismessa tradizione catanese delle ntuppateddhi (G. Pitrè, 1900, pp. 226-227; S. Burgaretta, 2007, pp. 100-101), la quale, nonché nel periodo più ampio del Carnevale, cadeva precipuamente però nelle giornate dei festeggiamenti per la patrona Sant’Agata. Nel caso delle ntuppateddhi, di cui ebbe a occuparsi anche il Verga nella novella La coda del diavolo, il rovesciamento del ruolo sociale si arricchiva di una nota aggiunta di costume molto importante: il ruolo subalterno della donna rispetto all’uomo andava in vacanza per una breve parentesi di tempo e l’uomo preso di mira finiva metaforicamente al guinzaglio, materialmente agli ordini, della donna travestita da ntuppateddha.
E nulla poteva opporre, l’uomo, per difendersi ed esimersi dall’ubbidire a quella consuetudine codificata dalla tradizione, proprio come succede ancora oggi il giorno di Pasqua a Prizzi, dove i diavoli scorrazzano per le vie del paese madonita, bloccando qua e là alcune persone del pubblico, per condurle a consumare da bere nei bar o, più semplicemente, a sborsare un obolo in denaro. Ciò avviene secondo un codice non scritto, temporaneamente limitalo e circoscritto al rito festivo. E anche a Prizzi si tratta di lasciare scatenare il caos, per poter poi ristabilire il cosmos con la sconfitta dei diavoli e della morte, loro mandante, e la vittoria del Cristo risorto. Quanto all’esercizio della parola, sono note le varie tradizioni orali legate ai momenti e alle fasi del Carnevale, dai pianti rituali per la morte sul rogo del Nannu, alle poesie dialettali, ai canti carnascialeschi veri e propri, ai componimenti satirici che prendono di mira le diverse classi sociali, come, per esempio, nel caso delle storii ri Cannaluvari di Avola (S. Burgaretta, 2008, pp. 182 ss.).
Sebastiano Burgaretta
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