II vecchio palazzo del Principe di Giardinetti, che da tempo è diventato la Casa comunale dei pachinesi, è una costruzione anonima, rustica come la fantasia del capomastro che la progettò, con la sola pretesa d›essere poco più alta delle umili casupole che un tempo le si addossavano quasi a chiedere protezione.
In una fenditura della facciata, dalla parte del gabinetto del signor Sindaco, quasi prossima alla sporgenza del tetto da molti anni cresce ostinata, testarda una pianticella di fico. Non è il simbolo del paese, che semmai dovrebbe crescervi una vite, ma il verde cupo del suo largo fogliame durante l’estiva calura da certamente un senso di fresco agli accalorati amministratori: solo così si giustifica la sua sopravvivenza inutile ed aerea. Passano infatti i sindaci ma il fico resta.
Ma non è dell› “albero sarto del gran padre Adamo” che desideriamo parlarvi, bensì d›un pregevole affresco che si trova dipinto sulla volta dell›ampio salone, già vanitoso cuore del palazzo, ora teatro d›infocate riunioni consiliari. « L›affresco, a forti tinte, raffigura un fanciullo – neri i folti capelli, bianca la corta tunica stretta alla vita – che regge un grappolo d›uva e, sullo sfondo, verdi vigneti e il mare dell›isola di Capo Passero.
Quel fanciullo è Pachino, con tutto intero il destino del suo bacchico nome, terra di aspro, forasticissimo vino che fu nettare a ciclopi e a rudi aborigeni. Pachino non produce teneri vinelli per delicati palati ma il suo vino è sangue pingue d›una terra tormentata da mani nodose ed esperte, il sangue da cui traggono abbondante alimento tanti vini dai nomi famosi.
È un vino che, come il fuoco francescano, è «iocundo, robustoso e forte»; è bruno e denso, ha la schiuma rossa come piropo, raggiunge i 18-20 gradi, lascia il segno nel bicchiere ed inceppa anche la lingua più sciolta; è il vino che costò… un occhio della testa a Polifemo, ch›era un intenditore, se è vero com›è vero, che Ulisse ne fece ampia provvista dentro otri vellosi nella terra ubertosa di Capo Pachino.
E se ancora non bastasse il ricordo mitico del ciclope e di Odisseo, avete mai pensato a che alludesse Dante quando, con gli occhi di Carlo Martello, vede la «bella Trinacria che caliga tra Pachino e Peloro»? A Tifeo, ad Encelado, al «nascente solfo»? O non piuttosto alla caligine, alla sottile, euforica nebbia che offusca piacevolmente le menti dei felici siciliani che tra Pachino e Peloro dal loro vino ricevono «maggior briga»?
Non sarebbe ora che i commentatori cominciassero a considerare seriamente tale dionisiaca interpretazione del dantesco «caliga»?
Pietro Moncada
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