A Ferla, in provincia di Siracusa, i giovani sono andati via quasi tutti. Stanchi di fare i contadini o i pastori e desiderosi di vivere una vita diversa da quella dei loro padri e più ricca di esperienze, a poco a poco hanno lasciato il paese natio e sono andati a stabilirsi nei grossi centri urbani, attirati dal benessere che la moderna società industriale offre a quanti accettano le sue leggi.
Il fenomeno dell’emigrazione è, pertanto, evidente appena si giunge a Ferla. Per le strade del paese circolano e si incontrano, in maggior numero, vecchi ed anziani.
Nei primi l’attaccamento alla terra è così profondo e tenace che impedisce loro di capire e, tanto meno, giustificare la insofferenza e il comportamento dei giovani. I meno vecchi, invece, più realistici e disincantati, considerano l’abbandono delle campagne come fatale e necessario per conseguire migliori condizioni di vita. E quindi, in massima parte, essi sono solidali con i giovani.
Essendo poco numerosa la gioventù, nel piccolo centro agricolo di circa 4.000 abitanti, situato fra i monti Iblei, a 550 metri sul livello del mare e circondato da distese verdi di ulivi e di noci, la vita si svolge sempre più quieta e tranquilla.
Le tradizioni secolari sono profondamente radicate e si conservano in tutte le manifestazioni giornaliere, specialmente in quelle religiose e devozionali.
La solennità maggiormente sentita ed attesa, come in tanti altri centri della Sicilia, è quella della Pasqua. La cerimonia culminante è quella dell›incontro di Cristo risorto con la Madonna, che sono rappresentati da due statue di semplice fattura e pur molto espressive. E quando, nel momento dell›incontro cade dalle spalle della vergine il manto nero che l’avvolgeva tutta, la commozione diventa generale e spesso si traduce in silenziose lacrime, talmente è profonda.
La sobrietà e la semplicità che caratterizzano la vita e i costumi degli abitanti di Ferla si riflettono anche sui cibi. Cosicché, neppure nelle maggiori festività troviamo pietanze molto complicate o dolci di pasticcieri.
A Pasqua, per esempio, la consuetudine vuole che facciano bella mostra di sé, in tutte le tavole, i cassateddi, cioè le «cassatelle» ripiene di ricotta, veramente gustose e tuttavia facile a preparare. Le «cassatelle» non sono conosciute soltanto a Ferla, ma si fanno anche in altri centri della Sicilia e fuori, soprattutto nel Siracusano, Ragusano e sulla Sila in Calabria. E poiché, nel passato, tali «cassatelle» si offrivano con grande larghezza a parenti ad amici e a dipendenti, è nato il modo di dire cu-nn’appi, nn’appi, cassateddi di Pasqua, ancora in uso, soprattutto metaforicamente che significa ogni cosa a suo tempo.
A Ferla i cassateddi di Pasqua si fanno nella maniera seguente. Si lavorano bene con le mani 1 Kg. di farina, 150 gr. di zucchero, 100 gr. di strutto, un cucchiaino scarso di sale e un poco d’acqua fino ad ottenere una pasta piuttosto soda, che si lascia riposare per circa un’ora. Nel frattempo si mettono in una terrina circa 700 gr. di ricotta, 200 gr. di zucchero (anche di più, o di meno), uno o due uova, un buon pizzico di cannella, e si lavora il tutto per alcuni minuti con un cucchiaio di legno.
Quindi col matterello si stende una sfoglia piuttosto sottile dalla quale si staccano dei dischi di circa 10 centimetri di diametro. Nel mezzo di ciascuno di essi si pongono due chucchiaiate del composto sopra descritto indi se ne sollevano tutto intorno i bordi pizzicandoli e sul composto si tendono a croce due strisce di pasta sì da ottenere una specie di «canestrello». Collocate su placche unte di strutto, le «cassatelle» si cuociono al forno a calore moderato. Appena diventano dorate si ritirano dal forno e prima di mangiarle si lasciano raffreddare.
Maria Raciti
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